Pizzipiturru

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Note lessicali

Pizzipiturru

[parole chiave: ‘pizzipitturru/pizzipiturro; attrivito’]

In un’intervista del 2002, Camilleri ricorda una parola siciliana a cui è particolarmente affezionato, perché legata a piacevoli ricordi infantili: «Io mi sono trovato a commuovermi come un imbecille due anni fa su una parola. Ma proprio mi stavano spuntando le lacrime. Mia nonna mi chiamava pizzipiturru, cioè ‘discolo, monello’. Io credevo fosse una parola inventata da mia nonna, perché mia madre non mi chiamò mai pizzipiturru, e neanche mio padre. Scrivendo la Biografia del figlio cambiato, mi capitò di leggere una lettera di Pirandello alla sorella Lina, che dice: “Cara sorella pizzipiturra…”. “Madonna!” pensai. Ciò vuol dire che era una parola dell’agrigentino che già ai tempi di mia nonna e di Pirandello stava scomparendo, cominciava con l’essere poco usata. Quindi non era un’invenzione, era adoperata, se Pirandello la usa nello stesso identico significato che mia nonna gli dava nei miei riguardi» (S. Filipponi, “Il laboratorio del contastorie. Intervista ad Andrea Camilleri”, «ACME. Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università degli studi di Milano», LV (2002), 2, pp. 201-220, a p. 208).

In seguito, pizzipiturru verrà impiegata dall’autore nella sua scrittura narrativa: «A un certo momento s’addunò che Cola non era cchiù con lui. Non s’apprioccupò, sò figlio era troppo pizzipiturro e attrivito per perdersi» MMU 121. Come si vede, il termine ha qui valore aggettivale; il significato è certamente “sveglio, scaltrito” (cfr. la coppia di aggettivi «sveglio, attrivìto» con cui viene definito un picciotto: LM 136).

Si tratta di una voce nota alla lessicografia siciliana. Il dizionario più ricco la registra dando conto di tre accezioni: «persona presuntuosa o arrogante», «persona litigiosa, attaccabrighe», «chiacchierone» (G. Piccitto / G. Tropea / S.C. Trovato, Vocabolario siciliano, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, 1977-2002, s.v.). Un altro repertorio la riportava già in anni non troppo lontani dall’infanzia di Pirandello, con la seguente definizione: «Si dice a uomo o bambino presuntuoso, arrogante» (A. Traina, Nuovo dizionario siciliano-italiano, Palermo, Pedone, 1868, s.v.; è accolta anche la variante pizzipitirru). Il fenomeno che sta alla base degli usi di Pirandello e della nonna di Camilleri, vale a dire la perdita di connotazione negativa, che lascia spazio a un’affettuosa manifestazione di rimprovero scherzoso, è tutt’altro che raro: si pensi per esempio a birbante, che nell’italiano letterario è un sinonimo di furfante o malfattore, mentre oggi sopravvive solo nel parlato familiare, come alternativa a monello.

L’episodio raccontato da Camilleri ha particolare interesse, non solo perché è un bell’esempio di come nel rapporto dell’autore col siciliano siano fortemente attive istanze emotive, ma anche perché costituisce materia di riflessione sulla componente soggettiva di fatto ineliminabile nella percezione linguistica: anche il miglior conoscitore del dialetto può ignorare determinate parole, o conoscerle solo in uno dei significati possibili (magari non il più comune), o prediligere una variante secondaria, sulla base del lessico famigliare che ha assorbito da bambino. Analizzando gli impieghi letterari del dialetto è bene tener conto di questo aspetto; è ovviamente necessario cercare di capire la ratio che sta dietro le scelte d’autore, ma tale operazione va compiuta sapendo che la motivazione della presenza di singole forme potrebbe risultare difficile o impossibile da individuare: bisogna sforzarsi di spiegare il più possibile, senza cedere alla tentazione di voler spiegare tutto. Una dimostrazione in più dell’opportunità, per il critico, di attenersi ad un sano empirismo (Luigi Matt novembre 2020).